Nella vendita, il mio gommista è differente
Lo scrivo e lo applico sempre con i miei clienti: se noi vendiamo prodotti siamo morti, se vendiamo esperienze d'acquisto, all'interno delle...
Per chi mi segue, questa è la terza puntata della mia saga in cui racconto come sto gestendo la mia guarigione dal tumore al pancreas che avevo scoperto di avere il 31 ottobre scorso.
La prima puntata parla della scoperta e della mia reazione e la puoi leggere qui.
La seconda parla della scelta del team di lavoro e dell’affetto che ho ricevuto e la puoi leggere qui.
Questa terza puntata è quella tecnica, l’operatività e l’esperienza in ospedale, è un post lungo, sovverte qualsiasi regola seo e penalizzerà il blog, ma chi se ne frega, è la mia storia.
Questa serie di post sono inseriti nella sezione “passaggio generazionale” come monito, per me e per tutti quelli, come me, che spesso si dimenticano di non essere eterni.
Lunedì 27 novembre mi trovavo nei dintorni di Brescia per una riunione di direzione con un mio cliente, poco prima di entrare in riunione mi chiama l’ospedale, una gentilissima dottoressa mi dice: “Le chiedo scusa per il poco preavviso ma avremmo deciso di operarla domattina, è fattibile?”. Momento di smarrimento, è un mese che mi preparo a questo momento ma in realtà non si è mai pronti, mi gira la testa e chiedo:” Ok, va bene, cosa devo fare, preparazioni, cibo, depilazione, docce?” Lei gentilissima: “Non si preoccupi, non deve fare nulla, venga in ospedale per l’ora che è più comoda a lei, entro le 18.00, e pensiamo tutto a noi, mangi senza problemi, si faccia un tampone rapido”. Quel “pensiamo tutto a noi” mi riempie di tranquillità.
Ore 10.30 entro in riunione, io, il CFO e il CEO del cliente, alcune persone del loro staff e due persone che collaborano con me, dobbiamo discutere un nuovo progetto, la riunione è importante ma io dico: “Ragazzi mi ha chiamato l’ospedale non posso stare più di un’ora e poi devo andare in ospedale”. Mi guardano come si guarda un matto e mi dicono:” E quindi? Sei ancora qui, vai che ce la caviamo benissimo anche senza di te”.
Il CEO mentre vado via mi dice: “Vai piano che muoiono più persone per incidenti stradali che per altre cause, loro ti aspettano”. Saggia considerazione. Mi tocco le palle e saluto tutti con affetto avviandomi.
Questa reazione da parte del cliente mi fa pensare che il fatto di aver parlato pubblicamente della mia malattia oltre a generare migliaia di messaggi di affetto mi ha messo anche nelle condizioni di poter essere trasparente nelle richieste di spostamento di date, infatti, mentre rientro a Pavia annullo tutti gli appuntamenti programmati per la settimana e tutti i miei clienti mi manifestano supporto e solidarietà, non li ringrazierò mai abbastanza per questo.
Alle 16.30 mi presento con Maria Elena in ospedale, mi assegnano la stanza, alle 17.30 arriva il Prof. Pietrabissa che mi dice:” Siamo pronti, domattina è il primo, ho visto che, essendo di strada, potrei anche risolverle il problema dei calcoli della cistifellea ma non lo garantisco, lo deciderò durante l’intervento, lei si rilassi e risolviamo il problema, l’intervento durerà 3-4 ore, Maria Elena, mi lasci il suo numero di telefono, la chiamo io quando ho finito, non prima delle 14.00, per dirle com’è andata”.
La chiamo io, non: “La faccio chiamare da un mio assistente”, questo per me fa tutta la differenza del mondo.
Sono rilassato perché sono certo di essere nelle mani giuste, la notte dormo come un ghiro, alle sette mi vengono a prendere e mi portano nel blocco delle sale operatorie, al San Matteo di Pavia sono 10 e c’è una specie di piazza in cui arrivano tutte le persone che devono essere operate e stazionano in attesa dell’ingresso in quella dedicata a loro.
Fa freddo, c’è un’umanità varia, chi si lamenta, chi prega, chi bestemmia, chi sta zitto, chi piange, io osservo. Osservo la professionalità delle persone che accudiscono i malati in attesa del loro turno.
Gli infermieri girano tra i letti, confortano, scherzano, tirano su il morale, accarezzano le persone per tranquillizzarle, mi rendo conto che questo modo di fare fa parte della professionalità di chi deve assistere una persona che spesso va verso l’ignoto, con tutte le paure e le ansie del caso, me compreso.
Questo mondo delle sale operatorie mi dà un’idea di professionalità estrema, procedure, check list, pochi fronzoli, velocità ed empatia, di cui parlerò più avanti. Mi piace questo modo di approcciare il lavoro, i miei clienti lo sanno bene.
Mi viene a prendere un infermiere e mi informa che la mia sala è la numero 8, quella robotica, lui mi assisterà per tutto quello che mi serve, mi dice di non esitare a chiedere, io faccio un sacco di domande lui mi risponde sempre con cortesia e simpatia, mi dice di non incrociare le gambe perché porta sfiga, mi tocco le palle e rido.
Entriamo nel vestibolo della sala operatoria, mi presenta un giovane anestesista, probabilmente uno specializzando, un po’ impacciato che mi racconta in modo un po’ stentato cosa succederà, mi rendo conto che probabilmente è alle prime armi e sta facendo pratica e, stranamente, la cosa non mi disturba anche perché, per imparare a diventare un grande anestesista i tuoi primi esperimenti li devi pur fare su qualche paziente vero. Sono tollerante e magnanimo oggi, quasi zen, non abituatevi.
Sono le 08.00 il giovane anestesista, dopo quattro tentativi, non riesce a prendermi la vena, vedo in lontananza una figura che lo guarda e mi guarda, io ammicco, lei subito si avvicina e si presenta, è l’anestesista, qui ho l’esempio della gestione della leadership direttiva senza parole, l’espressione verso il suo subordinato è:”Sta su da doss” ma con il sorriso e verso di me è rassicurante, non dice “Faccio io” o “Spostati” semplicemente fa quello che c’è da fare, velocemente e senza intoppi e mi infila gli aghi dove lei sa che devono andare: veloce, efficace, indolore. Probabilmente lo specializzando dovrà rivedere un po’ i compiti, un piccolo shampoo se lo sarà beccato, ma fa parte del processo d’apprendimento.
L’anestesista, sulla cinquantina, appare fredda, efficiente, gentile, rapida, mi spiega cosa succederà e quali saranno le fasi sia dell’anestesia e del risveglio. Io penso di essere abbastanza tranquillo ma so che non è così, lei mi accarezza il viso e mi dice: “Dai, non ci saranno problemi”.
Ecco il discorso dell’empatia: io non sopporto di essere toccato se non dalla mia cerchia intima, è una cosa che trovo fastidiosa, eppure in quel momento, quella carezza, come quella dell’infermiere, così come quella del Prof. Pietrabissa che spiegandomi com’è andato l’intervento appoggia le mani sulle mie gambe mi dicono cos’è l’empatia. Quelle carezze, non dovute e non richieste ma necessarie, mi hanno fatto star bene.
Non è simpatia, loro, come me nel mio lavoro, non sono pagati per essere simpatici ma per risolvere problemi, ma il conforto di una carezza non dovuta significa: “So cosa stai provando, mi metto nei tuoi panni, sono qui per uscirne insieme a te, per aiutarti”. Solo a scrivere queste parole, ora, mi commuovo, in sala operatoria mi sono commosso, loro hanno capito perché, sorridendo.
Dopo avermi sparato un tranquillante in vena mi fanno alzare e vado verso il tavolo operatorio, vengo coperto da una specie di coperta tipo pluriball calda calda, un nido confortevole che verrà tolto quando l’intervento inizierà. L’anestesista mi spiega cosa succederà: mi fa vedere il robot con i suoi bracci che opererà guidato dal Prof. Pietrabissa che non sarà lì con me. Io il Professore non l’ho ancora visto, mi auguro che abbia riposato bene, fatto una buona colazione e che sia uscito di casa di buon umore questa mattina senza incazzarsi nel traffico.
L’anestesista mi racconta che il chirurgo lavora a qualche metro dal paziente, in una specie di camera oscura guidando un joystick attraverso la realtà aumentata, una sorta di videogioco in cui però si vive o si muore per davvero. Fantascienza per me, routine di scienza e tecnologia per loro.
Il lavoro in sala operatoria è sincronizzato: ci sono circa 8 persone, chi compila una check list, chi mette a posto i ferri elencandoli uno per uno, chi collega dei macchinari, chi regola i cronometri e timer su grandi schermi, qualcuno aggiusta le luci, due si prendono cura di me riempiendomi di sensori, una sola dà gli ordini, tutti gli altri eseguono con professionalità, velocemente e in silenzio, ecco, piccolo momento formativo: in una sala operatoria come questa ti rendi conto di cosa significa la parola “squadra” ed è chiaro il concetto che gli ordini si eseguono, non si discutono, qui ne va della vita delle persone.
Guardo l’ora su un grande orologio con a fianco un cronometro impostato sullo 00.00, sono le 09.03. L’anestesista mi dice che siamo pronti e che ci rivedremo per il risveglio, sorride, forse anch’io, sbamm!
Mi risveglio, l’anestesista è con me, chiedo l’ora, sono le 14.30, mi dice che è andato tutto bene e che oltre al tumore al pancreas sono riusciti a togliere anche la colicisti con i suoi calcoli, mi lascia nelle mani di un suo assistente e mi saluta, so che non la rivedrò ma le dico:”Mi auguro di non rivederla mai più in queste circostanze” lei sorridendo mi risponde:”Ne sono certa, in bocca al lupo e stia rilassato, il più è fatto”.
Alle 16.30 sono in camera in uno stato di semi euforia, intubato al naso, con l’ossigeno, un catetere al pisello e due drenaggi su un fianco, mi sembra di stare benissimo anche se so di essere uno straccio.
Arriva Maria Elena, visita parenti, rigorosamente dalle 17.00 alle 19.00, ridiamo e facciamo un po’ gli scemi, quanto amo questa donna, ho documentato un po’ di cose su FB.
Mi dice che il Prof. Pietrabissa, come promesso, le ha telefonato non appena finito l’intervento, lui ha operato il tumore, la colicisti l’ha fatta fare a uno del suo staff, non mi ci impicco, anche lui fa fare esperienza ai suoi, mi sembra giusto; certamente la cosa che mi interessava che facesse lui era il lavoro sul tumore, l’ha fatto, well done!
Ore 18.00 si presenta Andrea Pietrabissa rassicurante, in questo momento simpatico, mi racconta l’intervento, mi dice che ha tagliato anche un pezzo di stomaco per sicurezza perché il tumore toccava lo stomaco e ha preferito così, non discuto, non faccio domande, non mi interessa, come ho scritto in un altro articolo: il problema tecnico è suo, non mio.
Mentre parla mi appoggia una mano sul ginocchio, ecco il discorso dell’empatia di cui ho scritto prima, mi fa molto piacere, viene naturale darsi del tu.
Mi avvisa che i prossimi due giorni saranno duri, dal punto di vista fisico, e mi dice che ora ho tre compiti: alzarmi in piedi entro l’indomani mattina, mangiare e camminare, tanto.
L’operazione è andata, inizia la routine ospedaliera. Inizia solo ora la mia vera esperienza in ospedale che ho potuto analizzare con calma tra mercoledì e oggi: l’ospedale è un posto di sofferenza, un posto di grande sofferenza e questo è un fatto, indipendentemente dal motivo per cui ci entri. Un posto di sofferenza personale e assolutamente individuale, anche se sei in mezzo a tante persone.
Ci sono due categorie di persone che lo popolano: i pazienti e gli operatori, quest’ultimi includono medici, infermieri e oss che si dividono in due sottocategorie: gli stronzi e i professionisti.
I pazienti, secondo me, hanno scusanti per tutto, in particolare io sono stato in un reparto in cui si fanno interventi importanti, ho visto ferite impressionanti, c’è chi si lamenta in continuazione, chi urla, chi rompe i coglioni da mane a sera, io ho avuto un vicino che russava in modo indecente e io stesso una notte ho scoreggiato rumorosamente senza ritegno.
Il paziente è solo con le sue ansie e il suo dolore, un dolore vero, a volte reagisce bene a volte no, se sei un operatore devi portare pazienza e lo devi sostenere sempre e comunque, altrimenti sei uno stronzo, anche se sei tecnicamente bravo sei comunque uno stronzo.
Ne ho conosciuto uno di stronzo in questi giorni che si è manifestato su due livelli: il primo quando mi ha ripreso perché chiamavo per farmi staccare i tubi per poter camminare liberamente, facendo il saccente con aria scocciata e dicendomi che non si deve fare perché si apre la via alle infezioni, ho guardato il cartellino e gli ho detto: “Non leggo medico sul suo badge, ma OSS, se vuole chiamo il medico che mi ha detto di fare così e gli spiega lei questa cosa delle infezioni su cui è certamente più preparato di lui” è stato muto, ha masticato amaro e so per certo che mi ha sfanculato perché abbiamo raggiunto il livello due il secondo giorno: l’orario di visita è alle 17.00. A casa mia le 17.00 sono le 17.00 non le 17.03 o 17.08 io alle 17.00 ho aperto le porte e i parenti sono entrati, il ragazzotto mi ha ripreso nuovamente perché non si fa, io non mi sono alterato e semplicemente gli ho fatto notare che gli orologi e gli orari servono per essere rispettati e la gente che sta fuori in ansia per i parenti dev’essere trattata con rispetto. Si farà, lo stronzo? Riuscirà a diventare un professionista? Si, è giovane, se riuscirà a sviluppare l’empatia di cui ho scritto diverse volte in questo lunghissimo articolo ci riuscirà, se non metterà in campo l’empatia farà un lavoro di merda per tutta la vita.
Ecco, in ospedale i bravi professionisti sono tantissimi, la maggior parte, sia medici che infermieri o inservienti: persone che fanno il loro lavoro con professionalità, in modo empatico, mi è piaciuto molto constatare che la maggior parte delle persone che ci lavora è così.
Tutti quelli che mi hanno assistito con professionalità ed empatia, la maggior parte, probabilmente non leggeranno mai questo articolo, io però mi ricorderò di loro sempre con piacere.
Il 28 novembre sono stato operato; dal momento della scoperta del tumore, il 31 ottobre, all’operazione sono passati 29 giorni. Ecco, una considerazione personale: è vero la nostra sanità è disastrata, è vero ci sono tante sacche di inefficienza, è vero tutto, ma in 28 giorni è stato tutto gestito e come per me anche per diverse altre persone in reparto con me, poche settimane dalla diagnosi all’intervento: senza tirare fuori una lira, senza dover pagare ticket o gabelle strane, tutto a carico del sistema sanitario nazionale.
Ma soprattutto, un’operazione del genere, se fossi stato negli Stati Uniti o in qualche altro paese, considerando la complessità e la tecnologia usata, me la sarei potuta permettere considerando che sarebbe costata certamente alcune centinaia di migliaia di dollari?
Quindi, le nostre tasse, che sono esagerate ovviamente, servono anche a questo, non dimentichiamocelo mai, porca zozza.
Certo, la pulizia in questo ospedale lascia un po’ a desiderare, come ho evidenziato nel sondaggio che mi hanno chiesto di compilare, il cibo fa schifo, non è un hotel come quelli a cui sono abituato ad andare io, ma quel robot multibraccia che mi ha operato in modo fantascientifico e la testa e professionalità di chi lo guidava e del suo staff, vuoi mettere?
Quindi, combattiamo per i nostri diritti e per rendere migliore questo nostro bellissimo e terribile paese ma non caghiamo sempre nel piatto in cui mangiamo solo per spirito di protesta o per voglia di polemizzare, è inutile e stancante e ci rende anche ridicoli.
Impariamo a dare valore al valore e parliamone e cerchiamo di non a disprezzare tutto solo perché con un post “contro” o “polemico” possiamo avere 15 like di celebrità effimera su un social. Amen.
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